Una spietata analisi, senza infingimenti, senza autoillusioni, senza autoinganni sulla vecchiaia, al di là delle ipocrisie e della retorica con cui oggi cerchiamo di abbellire ed edulcorare quella che chiamiamo eufemisticamente 'la terza età' rendendola così, se possibile, ancor più crudele e beffarda. E, insieme, in un gioco di rimbalzi e di controspecchi, un appassionato inno alla giovinezza, 'quella irripetibile età in cui ci chiamavano ragazzi'. Animato da ricordi ed esperienze personali, nelle quali il lettore non farà fatica a riconoscersi perché fini riesce a dare ai fatti che rievoca, ora con tenerezza, ora con ironia, ora con sarcasmo, a volte con lucida ferocia, significati e valenze universali. Il volume è anche una sorta di singolare autobiografia giocata solo sul filo del rapporto giovinezza/vecchiaia, sul cui sfondo domina, enigmatico e incontrastabile, il vero protagonista del libro: il tempo.
Quale cosa attinge, 'in ultimo', l'anima dopo essersi aperta, attraverso l'angoscia, alla ricerca di sé? È questo l'interrogativo che sottende l'articolarsi di questo saggio. Tre voci in dialogo fra loro e con i 'maggiori loro', da platone a husserl, cercano di rispondere a tale domanda, ognuna seguendo il proprio 'demone custode': la voce portatrice di un radicale scetticismo dell'intelletto, la voce che incarna l'atto di fede in lotta contro se stesso e quella dell'autore, che si rivolge agli amici attraverso due lunghe serie di lettere, riprendendo e sviluppando le idee della sua più importante opera teoretica, 'dell'inizio'. L'attenzione di cacciari torna a volgersi a quel cominciamento che è il 'problema' filosofico fondamentale.