Il temibile coraggio della sincerità e l'arte impeccabile dispiegata nel tenere unite le fila del racconto sono le qualità della austen che più colpiscono. In persuasione questa volontà di rifiuto assoluto dell'ipocrisia e dei felici autoinganni raggiunge picchi che sfiorano la crudeltà, ma si accompagna anche a una sorta di indecifrabile tristezza che, lenta e inavvertita, si deposita in chi legge. Nelle ultime e quasi disadorne pagine, la commistione, nella protagonista, di esultanza e sconforto rappresenta uno dei momenti più alti ed enigmatici della storia del romanzo inglese.
È una fredda, grigia, nebbiosa giornata di novembre degli anni trenta a londra e miss pettigrew, il cappotto di un indefinibile, orrendo marrone, l'aria di una spigolosa signora di mezza età e un'espressione timida e frustrata negli occhi, è alla porta di un appartamento al 5 di onslow mansions, in uno dei quartieri più eleganti della capitale inglese. Stamani si è presentata come sempre al collocamento e l'impiegata le ha dato l'indirizzo di onslow mansions e un nome: miss lafosse. L'edificio in cui si trova l'appartamento è tanto esclusivo e ricercato da metterle soggezione. Miss pettigrew coi suoi abiti logori, il suo mesto decoro e il coraggio perduto nelle settimane trascorse con lo spauracchio dell'ospizio dei poveri, suona ripetutamente prima che la porta si spalanchi e appaia sulla soglia una giovane donna. È una creatura così incantevole da richiamare subito alla mente le bellezze del cinematografo. Miss pettigrew sa tutto delle dive del cinematografo: ogni settimana per oltre due ore vive nel mondo fatato del cinema, dove non ci sono genitori prepotenti e orridi pargoli a vessarla. Miss lafosse la fa entrare e poi scompare nella camera da letto, per ricomparire poco dopo seguita da un uomo in veste da camera, di una seta dalle tinte così abbaglianti che miss pettigrew deve socchiudere gli occhi. In preda all'ansia, stringendo la borsetta fra le dita tremanti, miss pettigrew si sente sconfitta e abbandonata prima ancora che la battaglia per l'assunzione cominci, ma anche elettrizzata.
Pubblicato a puntate dal febbraio del 1914 e uscito in volume nel dicembre del 1916, dedalus. Un ritratto dell'artista da giovane è, insieme all'ulisse che lo seguirà a distanza di qualche anno, un vero e proprio ritratto dell'autore irlandese. Come scrive enrico terrinoni nella prefazione, il protagonista, stephen dedalus, è infatti il «principale avatar letterario di joyce». Lo scrittore aveva già usato questo nome per firmare i suoi racconti, ma «l'appellativo dal sapore mitologico non era per lui solo un nom de plume, era la sua stessa identità». Proprio come il celebre architetto di cnosso, joyce/dedalus tenta di fuggire da un labirinto rappresentato per lui dalla famiglia, dall'infanzia, dalla sua patria - l'irlanda -, dalla religione e dalla chiesa: un labirinto che imprigiona il suo animo di artista, che in questo romanzo di formazione si risveglia in tutta la sua sensibilità e irruenza. Merita però qualche parola anche l'autore della traduzione che qui riproponiamo: cesare pavese, legato allo scrittore irlandese - come scrive sempre terrinoni - da una «strana sincronicità» e da «un beffardo attraversarsi di destini». Una traduzione, quella del dedalus, che contribuì alla sua maturazione letteraria, tanto da poter essere considerata «una parte integrante del canone di pavese stesso». Prefazione di enrico terrinoni.
''david golder' è un libro che gronda odio, soprattutto verso il denaro e tutto ciò che può essere trasformato in denaro, oggetti e sentimenti, e verso le forme infinite che il denaro può assumere. Oggi, non ci rendiamo conto di cosa sia stato il denaro nel diciannovesimo secolo, o nella prima parte del ventesimo: una fiamma ardentissima, una colata di sangue disseccata, sbarre d'oro sciolte e di nuovo pietrificate. Diventava eros, pensiero, sensazioni, sentimenti, fango, abisso, potere, violenza, furore, come nella comèdie humaine. 'david golder' è un libro durissimo e secchissimo, che incide di continuo terribili ritratti, che in parte ricordano la memorialistica e la tradizione aforistica francese. ' (pietro citati)
Giovanni drogo, un sottotenente, viene mandato in una lontana fortezza. A nord della fortezza c'è il deserto da cui si attende un'invasione dei tartari. Ma l'invasione, sempre annunciata, non avviene e l'addestramento, i turni di guardia, l'organizzazione militare, appaiono cerimoniali senza senso. Quando drogo torna in città per una promozione, si accorge di aver perso ogni contatto con il mondo e che ormai la sua unica ragione di vita è l'inutile attesa del nemico. Tornato alla fortezza, si ammala e proprio allora accade l'evento tanto aspettato: i tartari avanzano dal deserto. Nell'emozione e nella confusione del momento, senza che lui possa prendere parte ai preparativi di difesa, drogo muore, dimenticato da tutti.
'girandosi, guardò al di là della baia, e laggiù, certo, scivolando a intervalli regolari sulle onde, prima due lampi veloci, poi uno lungo e durevole, c'era la luce del faro. L'avevano acceso'. 1914. La signora ramsay, serena e materna. Il signor ramsay, brusco e severo. Insieme a loro, in vacanza sull'isola di skye, ci sono gli otto figli e una nutrita schiera di amici. Una sera programmano una gita al faro. Per james, il figlio più piccolo, quel faro lontano rappresenta una meta magica e sconosciuta, un luogo a lungo sognato. Ma trascorreranno dieci lunghi anni prima che i superstiti della famiglia ramsay realizzino quel desiderio in una giornata che farà riaffiorare ricordi mai dimenticati e si trasformerà in un ultimo tentativo di riconciliazione. A partire da un episodio all'apparenza insignificante, virginia woolf costruisce un romanzo profondo e straordinario, un viaggio nel cuore di una famiglia, tra conflitti sotterranei, alleanze e tensioni che sopravvivono nel tempo. Un esperimento letterario, un'elegia ai fantasmi dell'infanzia, un caleidoscopio di punti di vista e pensieri che la nuova traduzione di anna nadotti restituisce in tutta la sua struggente poesia. Introduzione di hisham matar.
'il piacere' è il primo dei tre romanzi della rosa di d'annunzio, pubblicato nel 1889. La 'rosa' allude alla voluttà, tema comune ed esplicito di tutti e tre i romanzi. Al centro del libro la figura di andrea sperelli: un conte, elegantissimo, circondato dal lusso, alto di statura, poeta e acquafortista di soave sensibilità. Abbandonato nel colmo della passione dall'amante. Elena muti, egli cerca di dimenticarla svolazzando di fiore in fiore. Diventa così l'amante di una donna dall'inclinazione decisamente spirituale, maria ferres. Ma le due donne in realtà si somigliano, se non altro fisicamente. Il conte arriva a sfogare su maria la libidine che ancora gli desta il ricordo della prima amante, fino al momento in cui non gli sfuggirà uno scambio di nome che renderà evidente il vero oggetto della sua passione. Il romanzo più riuscito e giustamente più famoso di d'annunzio, accompagnato da un rigoroso apparato critico. Postfazione di simona micali.
Come 'martin eden', questo romanzo troverà sempre appassionati - per i quali resterà il libro del cuore. Solo un 'realista selvaggio' come jack london poteva gettarsi in una vicenda così temeraria, che a partire da uno scenario che ricorda 'forza bruta' ci fa veleggiare nel cosmo e nelle epoche con stupefacente naturalezza. All'inizio siamo infatti nel braccio degli assassini di san quentin, in california, dove il protagonista viene regolarmente sottoposto alla tortura della camicia di forza. Ma in quella condizione disperata, con feroce autodisciplina, riuscirà a trasformarsi in un moderno sciamano che attraversa le barriere del tempo come muri di carta. Amato da lettori fra loro distanti come leslie fiedler e isaac asimov, 'il vagabondo delle stelle', ultimo romanzo di jack london, è anche il suo libro più originale, estremo - che si colloca in una regione di confine del firmamento letterario, fra stephen king e carlos castaneda.