'stupor mundi' fu detto dai contemporanei federico ii di svevia, l'unico degli imperatori germanici del medioevo, insieme al barbarossa, che occupi un posto riconosciuto nella nostra storia e subito ci rimandi a immagini evidentissime: la disfatta inflittagli nel 1248 dai popolani di parma, la città di quel salimbene che lo paragonava a un drago funesto; gli splendori della corte di sicilia, consacrati dalla lirica della 'prima scuola', di cui il sovrano medesimo era mecenate; i castelli di puglia, gli arcieri musulmani, le donne dell'harem, le cacce col falcone illustrate nel suo trattato, il più ricco che ci resti in materia. Immagini romantiche, però. E confluenti verso un'interpretazione convenzionale, che confina federico in una luce araldica di crepuscolo: per chiudere con la sua figura un conflitto secolare tra impero e chiesa, e inaugurare invece il decollo della civiltà borghese mercantile culminante nel rinascimento. Qui l'imperatore non è segnacolo di una fase storica schematizzata, ma si muove all'interno di un complicato gioco d'azioni e di reazioni. Di lui viene rivelata, duplice e sconcertante, l'anima insieme feudale e 'illuminata': il senso feroce del potere, e lo scetticismo che a esso poneva di continuo un limite invalicabile.