«È un universo, quello in cui ci immette immediatamente lo scrittore, carnoso e carnale, carnoso prima che carnale: un mondo di succhi e untuosità, in cui la materia contagia e appiccica, in cui tra lo stato liquido e quello solido esiste una vischiosità metafisica, un lerciume effettivo ed esistenziale che lega le persone e gli oggetti» - tuttolibri giappone, inizi degli anni '70. In un paese già scosso dagli effetti dei violenti moti studenteschi del '68, ryu, lily e il loro gruppo di amici gravitano nei dintorni della base militare americana di yokota, a poche decine di chilometri da tokyo, di cui frequentano alcuni dei soldati lì di stanza. Vivono una quotidianità scombinata, fatta di un uso costante e ossessionato di qualsiasi sostanza stupefacente si ritrovino a portata di mano, di sesso estremo, di piccoli furti e di qualunque altro comportamento vada a costituire un'anomalia e una sfida alle regole di un'allora ancora rigida e opprimente società giapponese. La loro appare come un'esistenza senza speranza, in cui il dolore, procurato dagli altri o autoinflitto, e altre sensazioni fisiche estreme diventano il mezzo per annullare qualsiasi altra percezione, per non sentire più nulla. Ma in questa realtà desolata, descritta in uno stile volutamente freddo e distaccato, quasi chirurgico, traspare ogni tanto dai personaggi un'innocenza fanciullesca, forse proprio quella che hanno o credono di avere perso, e alla quale in realtà vorrebbero tornare. E dalle crude descrizioni del romanzo emerge paradossalmente una asettica e terribile bellezza. Bellezza nel nonsense, nel caos, nel grottesco. Perché anche in un apparente degrado, come recita il testo, 'ogni cosa irradia luce propria'.