«quando leggo il catechismo del concilio di trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il nuovo testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia, o più precisamente lo sarebbe senza la distanza che la mia imperfezione pone tra essa e me». Giunta agli ultimi anni della sua vita, simone weil volle esporre in una lunga lettera al padre marie-alain couturier i propri convincimenti, per verificarne la compatibilità «con l'appartenenza alla chiesa». La risposta non arrivò mai, e la weil rimase fino all'ultimo fedele alla sua «vocazione di essere cristiana al di fuori della chiesa». Ciò non deve meravigliare: le tesi qui proposte, nella loro cristallina, categorica chiarezza, sono in realtà una sfida alla chiesa – forse la più alta fra le molte che ha conosciuto in questo secolo. E innanzitutto una sfida alla pretesa ecclesiale di offrire la verità ultima, rispetto alla quale ogni altra è una rudimentale prefigurazione. Non così per la weil, che trovava in platone, nella bhagavad gita o nel tao tê ching le stesse verità, compiutamente espresse, che incontrava nei vangeli. «ogniqualvolta un uomo ha invocato con cuore puro osiride, dioniso, krsna, buddha, il tao, ecc. , il figlio di dio ha risposto inviandogli lo spirito santo. E lo spirito ha agito sulla sua anima, non inducendolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma dandogli la luce – e nel migliore dei casi la pienezza della luce – all'interno di tale tradizione».