Il tentativo struggente di confessare che impresa fallimentare, antieroica, sia vivere, per ciascuno di noi esiste un dono del saper vivere, uno speciale talento nello stare al mondo, senza il quale ogni altra qualità finisce per risultare inutile? E che cosa puoi fare se scopri che non hai quel dono? Con queste domande, che prima o poi chiunque si pone nel corso dell'esistenza, ho fatto i conti per anni, lavorando in un luogo che somigliava alla fortezza del deserto dei tartari, una galleria d'arte situata nella stessa strada in cui michelangelo merisi, meglio noto come caravaggio, uccise e si avviò a una fine rovinosa. Ci ho fatto i conti perseguitato dal fantasma di un uomo che al genio artistico univa una spiccata propensione a cacciarsi nei guai, tanto da spingere un insigne studioso ad affermare che, seppure incredibilmente dotato, caravaggio non disponeva del dono di saper vivere. Ci ho fatto i conti per anni, finché un giorno ho pensato che fosse il caso di risolvere la partita scrivendo un romanzo, ignaro, o almeno non abbastanza consapevole, che il raccontare può rivelarsi una maledizione nella cella della prigione in cui è rinchiuso, un uomo narra la sua storia. E dal fondo della propria disfatta si domanda che cosa significhi saper vivere, se davvero esista qualcuno con un simile talento. Un talento che mancava persino a caravaggio, l'artista da cui l'uomo è ossessionato. È questo l'innesco del nuovo libro di tommaso pincio, tra i piú originali scrittori italiani della sua generazione. Un vertiginoso gioco di specchi che sorprende il lettore, lo spiazza, non lo fa mai sentire al sicuro. Non è un romanzo su caravaggio, ma forse è il piú appassionato, inedito ritratto che del pittore sia mai stato realizzato. Non è un'opera di fiction, e neppure un testo autobiografico. È il tentativo struggente di confessare che impresa fallimentare, antieroica, sia vivere, per ciascuno di noi.