A lukones, in una villa isolata, una madre e un figlio si fronteggiano. Lui, don gonzalo, che le dicerie vogliono iracondo, vorace, crudele e avarissimo, è divorato da un male oscuro, quello che «si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d'una vita». Lei, la signora, è ridotta da una desolata vecchiezza e dal lutto per la morte dell'altro figlio (il «suo sangue più bello! ») a una spettrale sopravvivenza. Li unisce un amore sconfinato, li separa un viluppo di gelosia, senso di colpa, rancore, dolore - preludio al più atroce degli epiloghi. Intorno a loro una casa dissennata, feticcio narcissico ed epicentro di ogni nevrosi, estremo rifugio e tomba, e un'immaginaria terra sudamericana identica alla nostra brianza, vessata dai nistitúos provinciales de vigilancia para la noche? Che a tutti vorrebbero imporre la loro violenta protezione? , assediata da robinie e banzavóis, disseminata di strampalate ville, popolata di «calibani gutturaloidi» che come miserabili proci dilapidano le attenzioni della signora. E che gonzalo vorrebbe cancellare, insieme al barcollante feudo e a tutte le «figurazioni non valide». Perché il «male invisibile» da cui è affetto lo condanna a distinguerle e negarle, quelle «parvenze»: a respingere la «cara normalità», la turpe contingenza del mondo. Anche a prezzo di negare se stesso, anche a prezzo della più dura cognizione, quella che consegna alla solitudine e alla «rapina del dolore».